Sommario
Alcune riflessioni sulle storie
Kelly, uno psicologo che racconta storie
Bannister come Psicologo che Racconta Storie
I problemi di una Psicologia che Racconta Storie
1. La passione di raccontare
2. Maniere di raccontare
3. Raccontare come ricerca
4. La politica del raccontare
5. Ascoltare i ‘testi’ come le ‘persone’
6. Una mutata comprensione di realtà e finzione
Commenti conclusivi
Bibliografia
SOMMARIO
Viene elaborata una prospettiva della psicologia come disciplina 'che racconta
storie' (Mair 1998a). Si suggerisce che sia Kelly che Bannister possano essere visti in movimento tra una psicologia
relativamente tradizionale e una concezione della psicologia più chiaramente narrativa. Vengono indicate le
maniere in cui è importante, in una tale prospettiva, il lavoro sulla linguistica, la critica letteraria, la retorica
e discipline associate. Vengono mostrate, inoltre, importanti considerazioni per un approccio alla psicologia
narrativa.
E’ una psicologia narrativa o 'che racconta storie' più che una
psicologia basata su fatti e calcoli che sto cercando di esplorare. Fatti e calcoli sono certamente importanti, per cui
è necessario sottolineare che non voglio affermare che un aspetto escluda l’altro.
La nozione di psicologia narrativa è più ampia di quanto siamo abituati a considerare
e comprende anche il nostro entusiasmo per i fatti, i calcoli e tutto il resto.
In ogni fase del lavoro psicologico raccontiamo storie su quello che stiamo
affrontando e su cosa supponiamo di avere scoperto. Tutte le volte che raccontiamo una favola psicologica dobbiamo
parlare in qualche modo. Come psicologi di solito scegliamo le convenzioni del narrare storie in maniera
psicologica, accettate da quelli come noi e che sono abbastanza realistici da suggerire che il racconto non è soltanto
l’espressione capricciosa di preoccupazioni particolari della persona. La nostra convinzione implicita è che stiamo realmente
valutando qualche aspetto di un qualcosa, piuttosto che il raccontare storie di per sé, in pratica un modo i di
ritrovare le regole convenzionale del nostro gruppo. Siamo stati posti in condizioni di cecità, immaginando che la
scienza psicologica sia separata, in maniera impersonale e imparziale, dalla realtà delle cose e degli eventi.
Non siamo stati incoraggiati a ritenere che stiamo scegliendo di raccontare storie in maniere particolari, per
particolari finalità e per ottenere approvazione da un’ audience determinata.
Vorrei suggerire solo questo, che tutte le nostre valutazioni psicologiche sono ‘ raccontare
una storia’, e spesso un raccontare molto limitato, pedante e impoverito. Non siamo abituati a raccontare fiabe
usando qualcosa di simile alla varietà immaginativa che potremmo raggiungere. Sembriamo preferire rimanere
vicino alle convenzioni rigide che le nostre attuali e vicine tribù psicologiche ci hanno insegnato.
Le fiabe sono tribali. Vengono raccontate in maniere particolari da quelli che
sentono che le loro vite vengono definite dal loro raccontare. Per questo le tribù psicoanalitiche raccontano storie
di tipo molto diverso da quelle dei clan comportamentali.
I racconti sono l’utero della personalità. I racconti ci costruiscono e ci
demoliscono. I racconti ci incoraggiano quando siamo nei guai e ci incoraggiano verso finali che altrimenti non
potremmo presagire.
Più restringiamo e irrigidiamo il nostro modo di raccontare, più diveniamo affamati e
costipati.
Il tipo di psicologia del raccontare storie che io cerco, vuole attivamente incoraggiare
maggiore diversità nel modo di raccontare. Vuole essere diretta verso quesiti più radicali e dire qualcosa sul nostro
modo di creare, mantenere e far scomparire scenari, invece del limitato afferrare quello che sembra presentato.
Una psicologia della narrazione dovrebbe riconoscere che noi siamo, tutte le volte, a
metà tra l’ascoltare e raccontare, asserire e domandare, confermare e disconfermare. Le nostre storie non sono
materia verbale. Ogni sedia, ogni edificio, ogni modo di vestire o maniera di camminare è un’attività, un modo di
raccontare, un modo di dire … COSI’ VA IL MONDO. Una psicologia che racconta storie deve cominciare, e
ripetutamente ritornare, in una maggiore disponibilità a coinvolgersi a raccontare le nostre storie e a dare maggiore
attenzione creativa all’atto di narrare nel suo complesso.
Alcune riflessioni
sulle storie
Qualche citazione sull’importanza delle storie può fornire un contesto per quanto
seguirà.
James Wiggins (1975) suggerisce che ‘una storia di importanza reale, non è tanto un
argomento, quanto una presentazione ed un invito. Presenta un dominio di esperienza accessibile attraverso l’immaginazione,
e invita a partecipare a risposte immaginative alla realtà per rispondere veramente alla realtà in quanto
immaginativa’ (p.20).
William Doty (1975) dice che ' le storie sono narrate per essere espresse, giacchè sono
parte della qualità narrativa dell’esistenza che può essere condivisa e perciò compensata per tutto ciò che non
può essere condiviso. ' Egli approva anche l’idea che ‘quando narriamo le nostre storie, diamo via le nostre anime
(p.940). Suggerisce che ‘la nostyra è una cultura che vive in mezzo a molte storie(p.95)... Noi siamo storie.
Noi diventiamo le nostre storie. E talvolta queste storie sono prese dall’immaginario collettivo che è stato
condizionato alla pubblica condivisione' (p.115).
Stephen Crites (1975a) sostiene che ' la qualità formale dell’esperienza nel tempo è
inerentemente narrativa (p.291)... la narrativa, da sola, può contenere la piena temporalità dell’esperienza
in una unità formale (p.303) ... Solo la forma narrativa può contenere la tensione, le sorprese, le delusioni, i
cambiamenti e i successi dell’ esperienza reale (p.306). Crites (1975b) altrove suggerisce che 'le storie inventate,
proprio perché non sono limitate da dati di fatto, possono veramente fornire un maggior margine per l’esplorazione
di dimensioni più elusive dell’esperienza....La finzione realistica, ad esempio, ci può fornire le autentiche
sfumature di un’intera realtà sociale.' (p.29-30). Egli dice che ‘quando parliamo a e di qualcosa che è
direttamente reale per noi, raccontiamo storie e frammenti di storie' (p.31).
Michael Novak (1975) afferma che ' La storia fornisce l’articolazione ad un
cambiamento nell’esperienza.' Egli indica che la ' Storia è un metodo ...La storia non è un metodo facile per
dominare' (pp. 175-6). Nota inoltre che ' Rendere noi stessi coscienti del raccontare una storia in cui il nostro
pensiero ha le sue vere radici, è liberatorio' (p.177). Egli tocca un ulteriore importante argomento quando dice che
‘La storia non è narcisismo o soggettività ma, l’opposto: è la creazione di un oggetto indipendente' (p.199).
Kelly,
uno psicologo che racconta storie
Non affermo di poter guardare dentro la mente di Kelly per descrivere verso che
cosa stava arrivando. Tutto quello che posso fare è suggerire un modo di guardare alla psicologia dei costrutti
personali che possa recare possibilità sui punti focali che non sono stati definiti con chiarezza.
Kelly può essere visto come uno psicologo che si muoveva in due direzioni, o stava su
due gambe differenti, forse spostandosi dall’una all’altra. La sua è una psicologia di per sé in movimento
che cambia in maniera significativa nel momento in cui lui si muoveva attraverso l’affermazione delle sue posizioni
iniziali e basilari (Kelly 1955) verso i racconti più eterogenei dei suoi saggi (Kelly 1969).
Da una parte il suo approccio può essere visto come relativamente convenzionale
dato che incoraggia la sperimentazione e l’esame delle ipotesi. Dall’altra c’è qualcosa di sensibilmente
diverso, qualcosa che non è stato ancora afferrato.
Nella prima di queste alternative egli incoraggia la ricerca di una strutturazione dell’esperienza
e dell’azione, i modelli di definizione visti attraverso le complessità dell’ovvio e del quotidiano. Nella seconda
sembra voler creare realtà potenziali nei modi di raccontare che offrano e, per qualche verso, mettano in
pratica, modi di essere. Egli invita alla partecipazione di realtà psicologiche disegnate dallo stile e dalla tecnica
della sua narrazione, da una retorica dell’humor e dell’irriverenza, tradizione e innovazione che lui usa per
parlare di un quadro mentale della vita.
Una più tradizionale struttura analitica, di calcolo, di statistica e di mappatura, ha
dominato il lavoro della maggior parte dei seguaci degli insegnamenti di Kelly. E tuttavia troppa tecnicità può
impoverire la storia che viene raccontata. Si presta assai scarsa attenzione all’approccio psicologico assai meno
familiare, della narrazione o del raccontare storie che Kelly pure adopera, e, credo, arriva a sostenere.
Consideriamo alcune delle maniere in cui Kelly può essere visto come uno psicologo che valuta
le storie e racconta le storie.
1. L’idea che la vita sia essenzialmente anticipatoria è il cuore della
Psicologia dei Costrutti Personali. Ed è precisamente centrale anche per i Postulati Fondamentali di Kelly i quali
affermano che :
' i processi di una persona sono canalizzati psicologicamente dai modi con cui anticipa
gli eventi ' (Kelly 1970).
Consideriamo ora due citazioni dagli autori a cui abbiamo fatto riferimento per quanto
hanno da dire sulle storie. William Doty (1975) riconosce l’importanza dell’anticipazione quando dice che ‘ nelle
nostre storie spingiamo noi stessi verso il divenire qualcosa di diverso da quello che siamo: impariamo a sperimentare
possibili scenari futuri così e a conquistare la visione di dove siamo stati ' (p.94). Stephen Crites (1975a) dice che
"sembra intuitivamente chiaro che anticipiamo inquadrando piccole storie sul come le cose possono avere effetti.
Come è implicito nel termine ‘Scenario’, queste storie anticipatorie sono molto esili rispetto ai dettagli
compatti e precisi della cronaca mnemonica...... Sebbene siano di solito vaghe, non sono interamente prive di forma'
(p.302).
Sulla base di questi collegamenti tra ‘storia’ e ‘anticipazione’ , possiamo
scherzosamente rinominare I postulati fondamentali per vedere dove ci possono condurre. Consideriamo questa
alternativa:
‘I processi delle persone sono canalizzati psicologicamente dalle storie che vivono
e dalle storie che raccontano’ Ciò fa apparire immediatamente una distinzione tra ‘vivere’ e ‘raccontare’
che, di solito, non viene riconosciuta quando si considerano i costrutti, e che permette di aprire l’intero concetto
di ‘storia’ allo psicologo costruttivista.
Sia per i Postulati Fondamentali, come per i Corollari, diviene possibile riscrivere,
come un modo di far sorgere nuovi quesiti. ' Gli individui differiscono nelle storie che vivono e nelle storie che
raccontano’. ' Una storia può soltanto servire per l’anticipazione di una gamma limitata di eventi’ : ' La
storia di una persona varia a seconda di come, in un secondo tempo, interpreta la replica degli eventi': ' Una persona
può, successivamente, utilizzare storie diverse che sono inferenzialmente incompatibili tra loro': ' Nella misura in
cui una persona costruisce le storie di un’altra, può giocare un ruolo in un processo sociale che coinvolge l’altra
persona’.
2. Forse il più ovvio coinvolgimento di Kelly nel raccontare storie è nel suo uso dei
profili di Auto Caratterizzazione. Questi sono modi di raccontare storie di vita e il riconoscimento che maniere
differenti di affrontare questo compito possono incoraggiare o scoraggiare le possibilità di esperienza e azione. Le
nostre difficoltà nel accettare un tale approccio seriamente, sono evidenti nell’enorme squilibrio tra il nostro uso
del ‘calcolatorio’ metodo delle griglie piuttosto che nel ‘narrativo’ raccontare storie dell’Auto
-Caratterizzazione(Neimeyer, 1985).
3. Nella Terapia del Ruolo Fisso le persone sono invitate a vivere una storia
diversa. In questo approccio globale, la creazione di una storia alternativa contrastante, è il vitale punto di
partenza dal quale è possibile iniziare nuove esperienze.
4. Kelly, ripetutamente, fa uso di storie di vario genere per mostrarci la persistenza
dei principi nell’esperienza umana. Punta l’attenzione sull’antica, ma pur sempre attuale storia dell’esordio
della psicologia riguardante il Giardino dell’Eden. Esplora, inoltre, nei dettagli immaginativi qualche possibilità
di reinterpretare la storia musicale di Mozart, il Don Giovanni, cercando di chiarire il significato di vero nel
contesto di un personaggio inventato.
5. Kelly aveva un’ovvia preoccupazione per i modi e le forme del raccontare. Un saggio
come 'Confusion and the Clock' (Kelly 1978) è molto differente nella forma di composizione dell’'Epilogue: Don Juan'
(Kelly 1969). Il suo stile nell’ 'Ontological Acceleration' (Kelly 1969) è diverso da quello che usa saggi psico -
teologici, 'Sin and Psychotherapy' (Kelly 1969) e 'Psychotherapy and the Nature of Man' (Kelly 1969).
6. L’arco di volta della questione, tuttavia, è che Kelly non racconta nient’altro
che storie. Usa la metafora dell’’uomo come scienziato’ ma non riporta i risultati di alcun tipo di
esperimento formale . Molti sono stati ispirati dalle sue storie sulla condizione umana e dalla forma del loro
raccontare, non da fatti concreti che ha fornito o dati che potesse aver raccolto in una fase determinata.
Bannister
come Psicologo che Racconta Storie
A prima vista sembra che Don Bannister si sia spostato dalla psicologia alla scrittura
di romanzi negli ultimi anni della sua vita (Mair, 1988a). Però, se tentiamo un approccio all’intero corpo del suo
lavoro, e vediamo che nelle le sue diverse forme riflette un tema continuativo (come Kelly invita a fare quando si
esamina qualsiasi storia di vita) allora ci possiamo chiedere se non stesse tentando di arrivare ad una differente
maniera di fare psicologia, anche se è potuto sembrare, in senso convenzionale, che l’abbia abbandonata.
In qualche modo, Bannister è un eccellente esempio della scissione degli interessi di
Kelly.
Sembra prendere sia il lato del calcolo sia del raccontare storie , ad un limite
estremo, cosa che Kelly stesso non provò a fare. Molti dei primi lavori di Bannister furono sperimentali in
senso tradizionale. Usava i metodi empirici, analitici e statistici, comuni agli psicologi nel contesto dello sviluppo
del metodo della griglia. Da questo tutttavia, passò a raccontare storie i considerevole podere intrinseco , sul
disordine schizofrenico del pensiero, in quanto specchio di stili di vita, forme di vivere.
Fu un instancabile narratore di storie, in psicologia, nell’insegnamento, alle
conferenze, al bar, con gli amici. Cercava di convincere a muoversi, a cambiare coloro che lo ascoltavano
attraverso la forza dei suoi racconti e il sorprendente umorismo del suo raccontare. In seguito si rivolse ad una più
completa dedizione al raccontar storie, raccontare la vita in differenti scenari e i modi in cui le figure
fantastiche/reali se la cavino nei contesti che fanno domande e offrono possibilità.
Ciò che voglio suggerire è che Bannister, da un certo punto di vista ancor più
completamente di Kelly, stava raggiungendo una comprensione della psicologia basata sul racconto delle storie. Per un
verso fece grandi progressi, per altri, no.
Voglio ora, brevemente, suggerire alcuni aspetti della psicologia narrativa o del
raccontare storie, che devono essere considerati se si intenda sviluppare ulteriormente tale approccio..
I problemi
di una Psicologia che Racconta Storie
Verranno di seguito delineate alcune delle possibili implicazioni nell’adottare un
approccio del raccontare storie al lavoro di psicologo . I relativi problemi sono stati presentati altrove (Mair,
1988a, 1988b).
Sono profondamente intenzionato ad aprire il lavoro psicologico in generale e il lavoro
costruttivista in particolare, all’influenza e, persino all’orientamento, da parte di un ampia gamma di discipline
umane ed artistiche. Mi preoccupo particolarmente di indicare i modi in cui alcuni aspetti della letteratura, della
critica letteraria, della linguistica, della poetica e della retorica, possano essere importanti per la comprensione
psicologica.
1.
La passione di raccontare
Una psicologia che racconta storie deve essere soprattutto preoccupata del raccontare
storie piuttosto delle procedure analitiche. Credo che si dovrebbe preoccupare sia del raccontare sia dell’ascoltare
(quest’ultimo ci introduce ad una varietà di modi di analizzare o, altrimenti, replicare alla storia, al
narratore, e al testo) ma raccontare è più importante.
Voglio incoraggiare la più grande diversità, immaginazione, sorpresa, sottigliezza del
nostro raccontare.
Qui ci tuffiamo nei nodi creativi dell’arte e della letteratura , poesia e
rappresentazione drammatica. I modi di raccontare storie psicologiche stanno tutti intorno a noi e richiedono i livelli
più alti di impegno immaginativo. Non possiamo, penso, pretendere un posto nella psicologia del raccontare storie se
non ci liberiamo dai vincoli delle spiegazioni convenzionali. I nostri racconti ci hanno relegato allo stato di
cittadini di seconda e terza classe in confronto alle meraviglie della raccolta di dati. Non è che a qualcuno
sia stata negata importanza dall’altro, ma, alla fine, è la profondità e il vigore, la forza e la salacità della
storia che parla all’immaginazione, non ciascuno dei pezzi e frammenti che si trovano nella sua produzione.
2.
Maniere di raccontare
Ci sono tante maniere di raccontare, differenti stili nel pronunciare le parole, tanti
tipi di azioni e interpretazioni . La maniera di raccontare parla del mondo della comprensione essendo stata creata
tanto resistente quanto il ’contenuto’ di ciò che viene detto o prodotto.
In psicologia abbiamo adottato un grigiore puritano in molto di quello che diciamo.
Questo ha avuto la sua importanza storica allorchè le narrazioni sono diventate così vuote e puramente decorative
tanto da divenire spesso puri esercizi di svago e autocompiacimento piuttosto che seria ricerca. Ma il pendolo è
oscillato troppo e siamo di nuovo stati privati di molto di ciò che è importante dall’abito stilistico e formale
che ci possiamo ora permettere .
In questo contesto ritorniamo all’antico studio della Retorica che si
preoccupava di ogni cosa che implicasse il racconto e la persuasione, la comunicazione della verità e la costruzione
di un terreno comune per la comprensione (Dixon, 1971). Questa disciplina antica era stata per centinaia di anni di
importanza centrale nell’educazione, sino a uno o due secoli fa .
Per varie ragioni lo studi della retorica cadde in disgrazia, specialmente perché i
suoi metodi erano usati per permettere ad un’apparenza di serietà e intelligenza di avere la precedenza sull’onestà
e la verità. In anni recenti, però studiosi di varie discipline, tra cui critici letterari e psicologi, hanno
ritenuto necessario rivisitare la retorica e creare nuove versioni della disciplina per venire incontro a nuovi
bisogni.
I.A. Richards (1936), il critico letterario fu uno dei primi moderni scrittori che con The
philosophy of Rhetoric, ridefinì la disciplina come ‘ lo studio dell’incomprensione e dei suoi rimedi’ . In
quella sede suggeriva che il compito della retorica è di considerare strettamente il significato e il comportamento
delle parole nel loro contesto, nonché la loro ambiguità. E’facile capire che tali preoccupazioni sono al centro di
tutto il nostro raccontare storie in psicologia e in psicoterapia. Unitamente ad una rinnovata disciplina della
retorica, una psicologia del raccontare storie potrebbe fare quello che c’è da fare con i modi di raccontare, la
persuasione, la comprensione e l’incomprensione argomenti di importanza psicologica centrale.
3.
Raccontare come ricerca
La nostra tendenza , credo, è stata di relegare il raccontare, il raccontare le nostre
storie storie psicologiche, in un livello secondario rispetto all’importanza che diamo a ‘ottenere dati di fatto’.
Sembra che crediamo che il raccontare sia solo un mezzo di trasmettere i dati all’ascoltatore o al lettore e niente
più. Con questo sembriamo anche credere che le parole siano irreali, cose trasparenti, che portano il peso del
significato in maniera del tutto indifferente e neutrale. Spesso attribuiamo una chiarezza al linguaggio giacchè
possiamo facilmente guardare, attraverso le parole, le realtà verso le quali esse puntano.
Tutto ciò, io credo, è sbagliato. Le parole sono cose sostanziali e l’atto di
raccontare è, di per sé, una modalità importante di ricerca. Le parole sono concrete, come la vernice o l’argilla.
Non sono trasparenti e secondarie. Raccontano le nostre storie. Si aprono un varco, ovunque vengano usate, per
influenzare ogni cosa intorno a loro con le storie che vogliono raccontare. Portano con sé un bagaglio di altri luoghi
e altri tempi. Portano in una direzione che parla della della loro relazione con altre parole e altre cose.
Le parole e la scelta delle parole in relazione, crea realtà loro specifiche ad esse e
non indicano soltanto, docilmente le cose che supponiamo siano separate e di importanza superiore.
Oltre a questo c’è il fatto che le parole-in-relazione ci portano in luoghi ove
altrimenti non potremmo andare. I nostri atti dir raccontare sono, a volte, atti di ricerca primaria. Siamo portati
alla comprensiune e all’incomprensione attraverso le cose che vengono plasmate dalle nostre parole come se per
noi/loro si trattasse di descrivere la nostra esperienza in forme tangibili.
In tutto ciò, specialmente per quanto concerne la sostanzialità del linguaggio, gli
autori che si occupano di linguistica ( specialmente la linguisitca post-Saussuriana) hanno significativamente
contribuito ad esaminare in maniera diversa la relazione tra linguaggio e vita (Belsey, 1980, Eagleton, 1983).
4.
La politica del raccontare
Tutto il raccontare è sociale ,persino quando parliamo a noi stessi . Tutte le storie
sono collocate nel tempo, nello spazio e nella cultura. Si esprimono da qualche supposizione sconosciuta e
attraverso un insieme di convenzioni culturali , si rivolgono ad un certo pubblico.
Tutto il raccontare è politico , nel senso che riflette la struttura nascosta del
potere e del privilegio in cui sono situati l’oratore e il pubblico. Ogni racconto si scommette sull’affermazione
di una certa forma di realtà inscenata contro altre esplicite e implicite affermazioni che possono essere state fatte
o potranno essere fatte.
Le questioni che riguardano la politica del raccontare, Issues concerning the politics
of all tellings, in tutto il discorso sono di importanza vitale se una psicologia che racconta storie riconosce ed
esplora la natura del suo imprgno nella battaglia senza fine della persuasione e del potere che modella tutto il nostro
modo di raccontare. In quest’area sono state già fornite indicazioni su alcune delle complessità di pensiero, non
dagli psicologi, ma dai critici letterari e dai sociologi, specialmente quelle che si occupavano dello studio del ’discorso’
(Macdonnel, 1986).
Qui, ancora una volta, una psicologia narrativa diverge da una posizione psicologica ‘empirica/scientifica’
a-storica e a-politica. Piuttosto che cercare di creare una ‘storia scientifica che ponga fine a tutte le storie’
(o una storia che cerca faticosamente di nascondere il fatto che non è assolutamente una storia), gli psicologi
che raccontano storie diventano profondamente impegnati nella natura localizzata e politica di tutte le nostre
affermazioni e di tutti i nostri racconti.
5.
Ascoltare i ‘testi’ come le ‘persone’
In una psicologia che racconta storie dovremo essere preoccupati nell’ascoltare e
valutare le storie che noi e gli altri raccontiamo allo stesso modo dell’atto del raccontare di per sè. Qui la
preoccupazione Kelliana dell’analisi delle spiegazioni, come nell’Auto Caratterizzazione, manterrà un posto
centrale, ma può essere che servirà più della prospettiva di Kelly.
Mentre Kelly metteva giustamente in evidenza l’importanza della persona e la
probabile coerenza delle affermazioni personali persino quando la storia raccontata sembra cambiare soggetto, stile e
argomento, ci può essere anche bisogno di un punto di vista che ignori le persone. Potremmo non essere capaci
di capire abbastanza quando diamo rilievo solo all’individuo e alle qualità delle particolari preoccupazioni di un
‘autore’ Dato che tutto il nostro pensare, agire e parlare è sociale e culturale dobbiamo aver cura di quello che
ci modella più di quanto noi non riusciamo a modellarlo. Potremmo aver bisogno di considerare le maniere in cui il
nostro linguaggio, la cultura, il luogo e il tempo ci parla piuttosto che guardare solo ai livelli di libertà i
cui talvolta ci alleniamo.
Qui, di nuovo, sono stati compiuti passi importanti dai post –Saussariani e dai
linguisti materialisti. E’stata prestata molta attenzione al testo piuttosto che all’autore.
Per ‘testo’ si intende la trattazione di ogni produzione del linguaggio (che usi
parole o altre forme espressive) come di per sé completa, e non come riflessione di una persona individuale.
Interessante, quindi, è studiare la maniera in cui il linguaggio funziona e fa cose che vanno oltre le intenzioni
dello scrittore come individuo.
L’approccio radicalmente indagatorio della decostruzione (di per sé una sfida
linguisticamente simmetrica all’importanza della ‘costruzione in Kelly) può forse essere, per noi, importante. L’obiettivo
della decostruzione del testo è, nelle parole di Belsey's (1980), ' esaminare il processo della sua produzione
, non l’esperienza privata dell’autore in quanto individuo, ma il modo di produrre, i materiali e la loro
sistemazione nell’opera prodotta…Intriso di contraddizioni, il testo non può a lungo essere limitato ad una
singola, armoniosa e autorevole lettura. Al contrario diventa plurale, aperto alla rilettura, non più un
oggetto di consumo passivo ma un oggetto di lavoro per il lettore che produce significato.'
Nella decostruzione il lettore è incoraggiato a calarsi nelle metafore che circondano e
avvolgono il testo, ma che possono essere aperte per mostrare le complessità nascoste, i punti ciechi, le
contraddizioni , i significati alternativi messi in gioco da quel particolare uso del linguaggio play (See Norris 1982,
1983).
Ancora una volta gli psicologi che raccontano storie, e forse, soprattutto gli psicologi
Kelliani che raccontano storie, possono essere sfidati da una prospettiva che è sia correlata, sia radicalmente
opposta alla posizione abituale che hanno di fronte alle persone. Qui la libertà dell’ascoltatore e del lettore è
in maggiore rilievo di quella dell’autore , e grazie a ciò si può dar peso a tutto il modo in cui il linguaggio di
per sé conduce in direzioni che non hanno bisogno di essere comprese o approvate dall’autore.
6.
Una mutata comprensione di realtà e finzione
Abbiamo seguito la tendenza di fare una precisa distinzione tra realtà e finzione, a
guardarle come opposti. Abbiamo anche seguito, almeno in psicologia, la tendenza di dare maggior valore alla realtà
che alla finzione (nonostante che molto di quello che facciamo è più fittizio che reale) In una psicologia che
racconta storie, piuttosto che basarsi sui fatti, questa drastica distinzione viene sottoposta ad una sfida.
A questo punto arriviamo a riconoscere che la finzione creativa permette espressioni di
vitalità psicologica che la pura realtà non può mai raggiungere. Credere alle modalità irreali incoraggia a
cavalcare opportunità che possono permettere la costruzione di nuovi mondi attraverso i quali le attività del
costruttore che producono fatti possono avere un seguito dalle capacità di creare finzione dell’esploratore. Nelle
strane contraddizioni della metafora, assolutamente importanti in una psicologia che racconta storie, troviamo l’impossibilità
di far facili distinzioni tra realtà e finzione. Nella metafora parliamo di una cosa come se fosse un’altra, diciamo
una bugia per dire la verità, entriamo in un mondo di credulità per arrivare più vicini alla realtà che cerchiamo
di conoscere, andiamo in una direzione per arrivare a qualcosa di totalmente differente. (Mair 1977, Murray 1975,
TeSelle 1975).
Tutto questo descrive la correlazione essenziale tra realtà e finzione , una
correlazione nella quale le modalità irreali di pensiero sono significati essenziali che vanno in direzione di forme
variegate e ancora non scoperte di realtà. Tutto il risalto che dava Kelly all’importanza del come se , all’immaginazione,
alla costruzione della realtà, si trova a casa sua dove la finzione avviluppa il temporaneo finale di ogni fatto, e
dove l’immaginazione deve volare più in alto e più avanti di quello che è, per trovare nuovi luoghi per
coltivare la pratica. Dobbiamo entrare in una nuova relazione con la finzione per il tramite di una psicologia della
narrazione che dia valore a ciò che è stato troppo spesso rifiutato come qualcosa di inutile da valutare seriamente.
Commenti
conclusivi
All’inizio di questo intervento ho citato diversi non-psicologi a proposito di aspetti
importanti delle storie. L’ho fatto intenzionalmente, per sottolineare che parecchio lavoro su quest’argomento è
stato fatto usando altre discipline, ma questo non significa dire che gli psicologi sono noncuranti di queste faccende.
C’è, infatti, un interesse crescente che gli psicologi di diversi orientamenti mostrano nella narrativa, nella
retorica e argomenti correlati. Mi vengono subito in mente i nomi di Hillman (1975), Romanyshyn (1982) and Shotter
(1985, 1987). Molto vicino al ‘progetto’ di ricostruire la psicologia sociale , il filosofo Rom Harrè (1979,1983)
ha mostrato duraturo interesse per la fondamentale importanza psicologica del linguaggio e per l’uso di metodi
narrativi nella ricerca sociale. Molti di questi autori riconoscono di avere un debito col filosofo italiano del XVIII
secolo Giambattista Vico che definì la sua Scienza nuova 'una scienza della narrazione' (Verene, 1981).
A questo punto, tuttavia, foglio concentrarmi su una prospettiva Kelliana , anche se le
affermazioni fatte hanno più ampia rilevanza. La mia speranza che qualcuno di coloro che è stato ispirato dagli
scritti di Kelly , possa essere capace di rompere con convenzioni analitiche e statistiche l’ eccesso uso delle
quali, ha ridotto le libertà che cercava di avere.
Nel suo saggio 'The Language of Hypothesis: Man's psychological Instrument' Kelly
(1969), paragonava il romanziere e lo scienziato sperimentale , suggerendo che essi differiscono più nei tempi e negli
accenti che nell’essenza della loro esplorazione della natura umana. Egli tira le somme dichiarando che ‘ il
brillante scienziato e il brillante scrittore finiscono molto probabilmente per dire le stesse cose , se naturalmente
hanno parecchio tempo per incontrarsi. Lo scienziato e lo scrittore da strapazzo, oltretutto, sbagliano in maniere
molto simili, nessuno di loro è capace di trascendere l’ovvio. Entrambi falliscono nella loro credulità ' (p.151).
Nell’ 'Epilogue: Don Juan' (Kelly, 1969), Egli nota che ‘la gente’ di solito si vergogna di vedere quello che si
suppone non si possa vedere, e questo rappresenta le storie che non sono mai raccontate.' (p.335).
Voglio fare eco a Kelly nell’esortare di più la ricerca a credere. Ci sono molte
storie che aspettano di essere raccontate all’interno della psicologia. Qualche volta ci siamo vergognati di
riconoscere che qualche volta possiamo vedere, nella nostra professione e nella nostra cultura generale, qualcosa che
si suppone non debba essere vista e non deve essere detta.