Premessa
1
- Il fallimento nell’analisi del ‘Sociale’
2 - Paradossi,
contraddizioni e vicoli ciechi
3- La frattura
tra ‘sociale’ ed ‘economico’ e le sue conseguenze sulle
organizzazioni
4- Verso nuovi
principi e forme organizzative per l’intervento nel
sociale
Premessa
Dalla metà degli anni ’90 gli Italiani hanno scoperto di
essere il ‘Paese della solidarietà sociale’ per
eccellenza. Con ampia risonanza dei media più
conformisti, alcuni personaggi affermano di
rappresentare “12 milioni di cittadini volontari”,
qualche politico dichiara che a Roma “113 mila persone
sono occupate” in attività di carattere sociale, i paesi
del Terzo Mondo sarebbero affollati di medici e
infermieri e non dovremmo più temere incendi boschivi ed
alluvioni, almeno a giudicare dal numero di gruppi e
associazioni di protezione civile che dichiarano di
presidiare il territorio nazionale.
In realtà, a guardarsi intorno, la situazione appare ben
diversa: gli Italiani si sono rivelati uno dei popoli
più intolleranti d’Europa verso le minoranze etniche,
aumenta l’emarginazione (in parecchi casi si tratta di
autoemarginazione), nelle grandi città i mezzi di
soccorso sono bloccati dalle auto parcheggiate in doppia
e tripla fila, il territorio è sempre più devastato da
catastrofi che dipendono direttamente dal disinteresse e
dallo sfruttamento selvaggio praticato, soprattutto, da
coloro che vi abitano.
Sembra quasi che per occultare l’immagine di un paese in
via di trasformazione verso modelli socio economici
profondamente diversi dalle sue radici culturali ed
etiche, si sia creata ad arte una falsificazione
mediatica per fornire un senso di rassicurazione e
fornire delle attenuanti alla perdita progressiva del
senso sociale degli Italiani.
D’altronde, se è vero che le attività sociali non
legate alle linee principali di sviluppo della società
postindustriale difficilmente possono riuscire,
nell’immediato, ad evitare i danni generati dai suoi
eccessi, abbiamo ragione di ritenere che esse, in ogni
caso, svolgano un ruolo ‘ecologico’ di compensazione e
monitoraggio di importanza decisiva per gli anni a
venire. Non possiamo far progettare il futuro
dell’umanità a coloro che puntano tutto sull’economia di
mercato ed è quindi necessario fare ogni sforzo perché
le voci fuori dal coro vengano mantenute forti e
limpide.
Le pagine che seguono cercheranno di tracciare una
breve storia di ciò che, in Italia, è avvenuto, negli
ultimi anni, nella cosiddetta ‘dimensione sociale’,
analizzando gli errori compiuti, le falsificazioni e le
contraddizioni. L’intento è quello di disegnare uno
scenario alternativo che rilanci un ruolo funzionale e
realistico per tutti coloro che credono nella
possibilità di collocare gli esseri umani, la loro vita
e la loro organizzazione sociale, in una prospettiva
centrale e determinante.
1
- Il fallimento nell’analisi del ‘Sociale’
L’aggettivo ‘sociale’, tradizionalmente inteso,
definisce tutte quelle attività umane che non riguardano
la vita ‘personale’ degli individui, né il contesto
familiare o di coppia. Praticamente indica ogni
organizzazione, impresa, raggruppamento, luogo
d’incontro, ecc., ove più individui senza legame di
parentela si trovano a fare qualcosa insieme. Le nuove
prospettive elaborate nella seconda metà del novecento
dagli studiosi dei sistemi di relazione, hanno mostrato
come la distinzione tra ‘individuale’, ‘familiare’ e ‘sociale’,
non sia, in realtà così netta e che ogni attività umana
sia costantemente influenzata da tutte e tre queste
dimensioni , tuttavia, seppure con la consapevolezza
della labilità dei suddetti confini, la vecchia
distinzione può ancora essere utilizzata come mappa di
riferimento per chi si occupa della soluzione dei
problemi umani. Purtroppo, come troppo spesso avviene,
la distinzione sopra descritta, invece di essere
progressivamente colmata, ha dato origine ad ulteriori
suddivisioni schematiche che, in breve lasso di tempo,
hanno prodotto risultati assolutamente paradossali.
Cerchiamo di capire, brevemente, quello che potrebbe
essere successo.
Alla fine degli anni 70, in alcune università italiane
nascono le prime facoltà di sociologia, verosimilmente
come risposta culturale ai movimenti del 68 che avevano
dimostrato (ancora una volta!) l’impossibilità di
prevedere l’andamento di una società basandosi sulla
distinzione in classi e ceti sociali. Vale la pena di
ricordare come gli studenti, in Italia, avessero sino a
quel punto rappresentato la nursery della futura classe
dirigente che, in quanto tale, era stata sempre
utilizzata in funzione di supporto del potere esistente,
contrapposta alla classe operaia sotto l’egemonia del
Partito Comunista. Vederli schierati su posizioni
rivoluzionarie, anticapitaliste e filocomuniste, aveva
rappresentato, per tutto il sistema un autentico shock
che aveva colpito anche la stessa sinistra (vedi la
presa di posizione di Pasolini a favore dei poliziotti
‘proletari’ contro gli studenti ‘figli della borghesia’,
dopo gli scontri di Valle Giulia). Era quindi diffusa
la percezione della necessità di studiare più
attentamente i fenomeni ‘sociologici’ , abbandonando
l’esclusività delle diverse analisi di tipo
classista-economicista per poter programmare
l’evoluzione della società. Bisogna dire che gli anni
successivi non furono troppo gloriosi per la nuova ‘scienza’,
eccessivamente caratterizzata da un bagaglio culturale
marxista e cattolico che gli precludeva la capacità di
misurarsi con alcune importanti branche del sapere umano
escluse, per motivi storici ed ideologici, da questi due
fondamentali ‘filoni storici’ della politica e della
cultura italiane. Basti pensare alla psicologia
(condannata come ‘eresia’ dalla chiesa e come
‘deviazione sovrastrutturale’ dai marxisti) e alla
biologia evoluzionista. Quanto a quest’ultima,
probabilmente la scienza che possiede uno dei maggiori
potenziali esplicativi per la comprensione dei sistemi
viventi (inclusi quelli umani), essa era stata sempre
rigettata dalla chiesa in quanto negava l’origine divina
della creazione, mentre i marxisti ortodossi la
consideravano con timore, sia per una serie clamorosa di
errori e brutte figure fatte nel tentativo di applicarla
al cosiddetto ‘materialismo dialettico’, sia per il
facile accostamento che se ne poteva fare alle teorie
naziste sulla razza.
E’ evidente che, con tali limiti, la nuova scienza
‘omnicomprensiva’ non poteva far molto per risolvere i
problemi complessi di un mondo in trasformazione e,
quindi, l’unica cosa che gli restava da fare era di
cercare di ‘catalogare’ la confusione in categorie nuove
che permettessero di gestirla senza grossi problemi. Non
vogliamo, ovviamente, incolpare direttamente ed
esclusivamente i sociologi dell’ulteriore confusione che
si è generata, ma non possiamo fare a meno di ritenere
che, se il loro confuso vociare è stato poco ascoltato
nella programmazione delle linee guida di sviluppo
dell’Italia, esso sembra aver avuto un ruolo decisivo
nell’‘istituzionalizzare’ la confusione e creare un
sistema paradossale di gestione dei problemi sociali,
almeno nell’ultimo decennio. A partire dai primi anni
novanta, un’entità culturale eterogenea prevalentemente
costituita da cattolici non allineati al Vaticano, da
reduci dei movimenti del 68 e del 77, da intellettuali
marginali e disoccupati, da politici di incerto futuro,
è riuscito ad attribuire all’aggettivo ‘sociale’ il
compito lessicale di definire tutto quello che esisteva
all’infuori della logica dominante nell’organizzazione
capitalistica dell’economia.
Il passo successivo è stato la creazione di un Ministero
per gli Affari Sociali e la classificazione
amministrativo-fiscale di Organizzazione Non Lucrativa
di Utilità Sociale (Onlus) per tutte quelle imprese che
intendevano muoversi ‘fuori delle logiche di mercato’.
Appare abbastanza evidente che tutto ciò sia nato
parallelamente alla formazione dell’alleanza di centro
sinistra e che le sue componenti ideologiche e culturali
coincidano con quelle dei partiti cattolici ed ex
comunisti presenti all’interno di quest’alleanza, così
come è un dato di fatto che la creazione del Ministero
per gli Affari Sociali e la creazione del regime Onlus
sono avvenute durante il governo di quello schieramento
politico.
Già in altri articoli abbiamo osservato come la
collocazione del ‘sociale’ in un ambito separato dal
resto del sistema abbia avuto, per i suoi fautori, tre
risultati pratici di indubbia utilità tattica[1]:
a-
Fornire, alle componenti dell’alleanza di centrosinistra
più radicalmente anticapitaliste, un ruolo aderente al
loro background morale e culturale.
b-
Attenuare il malcontento dei movimenti antagonisti per
le scelte governative neoliberiste dettate dalle
esigenze internazionali.
c- Appropriarsi, di fronte all’elettorato, del ruolo di
gestori unici dei problemi di quella parte debole della
collettività colpita dai provvedimenti governativi.
d-
Gestire in maniera esclusiva le notevoli risorse
finanziarie create per il nuovo settore, creando
all’uopo organizzazioni private (il cosiddetto ‘privato sociale’), organizzando settori della pubblica
amministrazione, emanando norme legislative e
finanziarie vantaggiose per i gestori degli interventi.
A parte alcuni parziali successi tattici
(sostanzialmente la conquista di spazi mediatici e
l’acquisizione di ingenti risorse finanziarie sparite,
poi, chissà dove) il sistema creato non è riuscito ad
evolversi ed è quasi completamente crollato
contemporaneamente alla perdita di controllo sulle
risorse finanziarie conseguente alle sconfitte
elettorali della sinistra.
Purtroppo, quanto di confuso, sbagliato e scorretto sul
piano etico e legislativo è stato compiuto in pochi
anni, ha messo in seria difficoltà le possibilità di
costruire valide alternative ad una società orientata
esclusivamente alla crescita del profitto economico.
2
- Paradossi, contraddizioni e vicoli ciechi
Ogni volta che isoliamo, da un sistema complesso, una o
più delle sue componenti dinamiche, ci troviamo di
fronte ad un oggetto ingombrante, scarsamente
comprensibile, pieno di problemi insolubili. Se siamo in
grado di falsificare abilmente i dati, utilizzare
cortine fumogene filosofiche, appellarci a principi o
bisogni ‘irrinunciabili’, estrapolare frammenti di
storia, forse, possiamo andare avanti per un po’
sperando che nessuno si accorga dell’errore compiuto.
Ma, prima o poi cominciano a crearsi grovigli di
problemi i cui maldestri tentativi di soluzione portano
a problemi ancora più grossi. La scelta di considerare
il ‘sociale’ come una specie di ‘riserva protetta’, non
è sfuggita alla descrizione sopradescritta. Ecco un
piccolo elenco di problemi insolubili, nonsensi e
contraddizioni macroscopiche che si sono venute a
creare:
1- Dopo la creazione delle cosiddette Onlus (la cui
definizione presuppone l’assenza di fini di lucro e
l’utilità verso la collettività), uno dei più alti
dirigenti del ministero degli Affari Sociali ha
richiamato alla necessità: “di analisi per
comprendere: se e come questa area sia un mezzo di
ammortizzatore sociale delle aree di sofferenza
occupazionale; se e in quale misura si tratti di un’area
di occupazione sostitutiva a seguito di restringimento
occupazionale nel pubblico o piuttosto di occupazione
aggiuntiva; come incrementare occupazione e sviluppo del
no profit”. Quindi, dopo aver constatato l’esistenza
di un settore della società che rinunciava al profitto
in favore di attività di pubblico interesse, si cercava
di creare dei meccanismi per riportare questo settore
nelle logiche di mercato.[2]
2- In alcuni comuni amministrati dal centrosinistra, i
servizi amministrati direttamente, in ossequio alle
politiche di privatizzazione, sono stati dati in appalto
alle imprese del privato sociale. I meccanismi di
attribuzione degli appalti, però, non prevedevano
offerte al ribasso e le cifre sborsate per questi enti
‘no profit’ permettevano guadagni netti per l’impresa
stessa quantificabili tra il 30 e il 90% annui , molto
spesso solo per la fornitura esclusiva di personale
stipendiato.[3]
3- Nelle Onlus sono state ammesse le cooperative, le
Società a Responsabilità Limitata e, addirittura le
Fondazioni Bancarie. Molti direttori o presidenti di
queste nuove entità sottoposte a favori fiscali e
beneficiarie dell’esclusiva nell’attribuzione di
determinati appalti pubblici, arrivano a guadagnare
svariate centinaia di milioni delle vecchie lire. In
alcuni casi si è gridato allo scandalo per l’acquisto di
yacht. Non si è ben capito come si potesse definire
tutto ciò “assenza di fini di lucro”, né quale fosse
l’‘utilità sociale’ di certi prodotti e servizi offerti.[4]
4- In alcuni settori si è utilizzato il volontariato per
svolgere mansioni che sarebbero spettate a lavoratori
dipendenti: si è poi scoperto che i volontari venivano
retribuiti su base oraria con la formula ambigua del
‘rimborso spese’. C’è chi ha osservato che tutto ciò
altro non era che lavoro nero e ha fatto terminare il
giochetto, durato, comunque per alcuni anni. Stranamente
i sindacati non si erano accorti del fatto,
probabilmente anche perché l’associazione che forniva i
volontari era stata ‘promossa’ proprio da un sindacato.[5]
5- Quando il governo annunciò la fine del servizio
militare obbligatorio, le proteste più alte si levarono
dalla Lega per l’Obiezione di Coscienza, un’associazione
nata anni addietro per opporsi al servizio militare
obbligatorio. Motivo ufficiale della protesta: non
avremo più obiettori di coscienza per svolgere il nostro
lavoro!
6- La tossicodipendenza, il disagio psichico, la
povertà, l’immigrazione e quant’altro, sono problemi
‘sociali’ o problemi economici, sanitari, ambientali e
via dicendo? Nessuna chiarezza, prospettiva o strategia,
l’unica cosa è la distribuzione di miliardi di lire al
privato sociale per progetti di intervento che non
avevano nessuna possibilità, neanche nelle intenzioni,
di risolvere i problemi. Come giustificazione della
incapacità di soluzione dei problemi si è inventata, la
teoria della ‘riduzione del danno’, che ha sancito la
permanenza stabile di settori di grave sofferenza umana
altrettanto stabilmente assistiti da operatori di dubbia
qualifica alle dipendenze di imprese ‘sociali’
lautamente remunerate.
Ce ne sono decine e decine di situazioni come quelle
sopra descritte, ovviamente ben conosciute da molti
senza che quasi nessuna voce si sia mai levata a
denunciare o a protestare. Potrebbe sembrare strano che,
in un settore ove l’impegno etico dovrebbe essere alla
base di ogni comportamento, a parte un paio di casi,
tutti abbiano accettato tacitamente quanto si è andato
organizzando. Possiamo cercare di fornire alcune
spiegazioni sul perché del silenzio generale:
1-
Forse la situazione è durata troppo poco perché si
potesse prendere coscienza della sua gravità.
2-
La maggioranza degli operatori dipendenti erano legati
da contratti precari e, chi ha provato a protestare è
stato licenziato.[6]
3- Sindacati, forze politiche della sinistra alternativa,
organi di controinformazione, ecc. sono stati coinvolti
e beneficiati dal sistema instauratosi e, dopo alcune
isolate proteste iniziali, hanno cessato ogni forma di
opposizione.
4-
Le forze del centrodestra hanno ignorato completamente
quanto stava accadendo: sia per motivazioni contingenti,
sia per formazione storica e culturale il loro sguardo
era concentrato su altre tematiche.
5-
Date le prevedibili conseguenze sul piano politico e
giudiziario che le denunce avrebbero causato, in molti
temevano che ciò avesse potuto favorire la destra, vista
come sicura affossatrice di ogni intervento sociale.
Tuttavia non possiamo, ragionevolmente, pensare che solo
l’opportunismo e l’ignoranza abbiano causato i fenomeni
descritti, né ritenere che la sconfitta elettorale di
chi ne è stato il principale responsabile sia, di per
sé, sufficiente ad uscire dal vicolo cieco. Nel prossimo
paragrafo cercheremo di andare più a fondo nell’analisi
delle componenti dei fenomeni culturali, psicologici ed
etici che possiamo ritenere inerenti alla ‘questione
sociale’.
3-
La frattura tra ‘sociale’ ed ‘economico’ e le sue
conseguenze sulle organizzazioni
Esistono due prospettive opposte di pensare al benessere
dell’umanità: la prima ritiene che i processi di
accumulazione di risorse possano fornire lo strumento
migliore per risolvere i problemi personali, familiari o
sociali. Questa viene scelta da tutti coloro che passano
la vita ad accumulare ricchezze materiali. La seconda
che ritiene che nella vita siano importanti ben altre
cose, quali l’arte, i sentimenti, la spiritualità, la
conoscenza la giustizia, ecc.
La società capitalista moderna e democratica non
impedisce che la seconda ipotesi sopravviva tra gli
esseri umani: gli toglie semplicemente ogni possibilità
concreta di manovra. Qualsiasi idea nuova e alternativa,
ad esempio, non può essere portata a conoscenza di
eventuali sostenitori dato che i canali di informazione
sono strettamente controllati da forti lobbies
politico-economiche. Per essere uno studioso, un
ricercatore o uno sperimentatore hai bisogno di mezzi, e
questi ti vengono concessi a parte che i tuoi risultati
non mettano in discussione le linee stabilite dal
finanziatore. In ogni caso, anche se si ha la
possibilità di affermare cose nuove, queste si perdono,
vengono confuse stravolte o squalificate, all’interno di
un costante bombardamento di informazioni conformi alle
regole. La regola aurea della disinformazione, che cioè
una menzogna ripetuta cento volte diviene una verità,
viene continuamente applicata ogni volta che qualcuno
riesce ad avere abbastanza denaro per comprare qualche
giornalista compiacente, un opinionista in cerca di
successo, uno scienziato di serie B che debba arredarsi
la casa, e così via. Tutto questo ha, inoltre, il
risultato di accrescere, presso il pubblico, un senso
diffuso di sospetto e chiusura preconcetta a qualsiasi
cosa venga proposta: in mezzo a tante menzogne è più
facile chiudersi che riuscire a selezionare le
pochissime cose oneste che qualcuno riesce ancora a
proporre.
In un quadro di questo tipo, tutti quelli che si
oppongono in maniera organizzata alla mercificazione
dell’esistenza e all’asservimento dei valori umani alle
logiche del profitto economico tendono a organizzarsi
nelle seguenti categorie schematiche:
1-
La tendenza spiritualista che tende ad
identificare il mondo materiale come dominio inadeguato
per l’uomo. Questo porta a non cercare di modificare lo
stato delle cose e a cercare la soluzione dei problemi
esistenziali in mondi metafisici. La crescita di nuove
religioni, il ricorso ai maghi, l’astrologia, ecc. che
si sta manifestando nelle società economicamente più
avanzate, è la conseguenza di tutto ciò.
2-
La tendenza antagonista-ostile che ritiene
che i mali della società contemporanea dipendano
esclusivamente dal capitalismo e che solo con la sua
fine sia possibile recuperare spazi di felicità per la
specie umana. Si ritrova nei gruppi anarchici, nei
vetero comunisti, in gran parte dei cosiddetti no-global.
3-
La tendenza settaria-idiosincratica
adottata da piccoli raggruppamenti con interessi
diversificati, che possono andare dall’uso del tempo
libero, a nuove forme di religiosità, teorie politiche,
impegno sociale, ecc. Questa tendenza è caratterizzata
da singoli patrimoni di idee fortemente originali o,
comunque, in contrasto con le visioni correnti dei
problemi . In questo tipo di aggregazioni quello che
conta non è tanto il risultato di raggiungere
determinati obiettivi utili per la società, quanto di
conservare invariato il nucleo originale di convinzioni
dei partecipanti.
4-
La tendenza scientifico-razionalista
proiettata a produrre soluzioni ‘sagge’ applicabili a
qualsiasi tipo di organizzazione sociale. Questa, di
solito, porta ad escludere dal campo d’azione tutti
quegli argomenti che mettono in discussione la
neutralità della conoscenza. La carenza di risultati
ottenuti viene, di solito, giustificata con
argomentazioni di tipo logico-filosofico o psicologico
che addossano la responsabilità dei mancati obiettivi
raggiunti all’incapacità di ‘comprendere’ del pubblico.
5-
La tendenza opportunista–mimetica che pur
mantenendo un nucleo forte di valori centrali condivisi
tra i membri, lo tiene occultato per sfruttare tutte le
possibilità di manovra che gli consentono di
sopravvivere. Qui lo sforzo è di produrre due tipi di
risultato: uno verso l’interno che sia coerente con il
nucleo centrale di convinzioni, uno verso l’esterno,
considerato di importanza secondaria ma necessario alla
creazione di un’immagine da usare come scudo. La
mancanza di una forte correlazione tra l’attività
interna e quella esterna porta, nel tempo, a far perdere
i confini d’identità e al conseguente dissolvimento
dell’organizzazione.
Naturalmente alcune organizzazioni possono utilizzare
più di una delle tendenze descritte, sia allo stesso
tempo, sia come risultato del cambiamento di strategie
durante il percorso della loro esistenza.
Sino ad oggi in Italia, se escludiamo pochissimi casi, è
difficile riconoscere risultati concreti, definitivi e
di efficacia diffusa nelle organizzazioni ‘sociali’,
incluse quelle che si occupano della difesa
dell’ambiente. Come dicevamo nell’introduzione, il
quadro generale mostrerebbe un paese piuttosto in
difficoltà nella difesa dei bisogni e diritti della
collettività e, inoltre, la rappresentazione mediatica
di una società brulicante di gruppi e organizzazioni
solidali non è servita ad ostacolare la vittoria
elettorale di uno schieramento capeggiato dal
capitalista italiano più odiato e temuto dal mondo del
sociale. Tuttavia vanno fatte due considerazioni: la
prima è che quel mondo che ci è stato proposto sul piano
mediatico, che vediamo nei salotti televisivi, che invia
fax quotidiani alle redazioni dei giornali, che
organizza manifestazioni con bandiere e bandierine,
nella realtà statistica corrisponde alla minima parte
di un universo complesso e articolato che, su scala
locale, può aver conseguito qualche risultato positivo.
La seconda è che esiste una profonda differenza tra i
vertici delle organizzazioni sociali e la maggior parte
dei loro aderenti, poco o nulla coinvolti nelle
decisioni e nelle strategie. Abbastanza diffusa è la
trasmigrazione dall’una all’altra associazione nella
speranza delusa di riuscire a far qualcosa di utile.
Questi due elementi ci inducono ad affermare l’esistenza
di un potenziale umano che possa essere indirizzato
verso forme di organizzazione di tipo nuovo che
perseguano obiettivi di riconoscibile utilità sociale.
4- Verso nuovi principi e forme organizzative per
l’intervento nel sociale
Senza girare troppo intorno al problema, va detto subito
e chiaramente, che il lavoro al servizio della
collettività presuppone una posizione di notevole
complessità per le organizzazioni e gli individui che
svolgono tale compito. Per cui è perfettamente illusorio
ritenere che sia possibile creare un grande esercito
della solidarietà in servizio permanente effettivo e
formato da individui organizzati che credono in quello
che fanno, che si comportano correttamente, che non
cerchino privilegi, profitti personali, e via dicendo.
Tuttavia è possibile programmare realisticamente
strutture che organizzino la partecipazione dei singoli,
distribuiscano gli incarichi di responsabilità,
stabiliscano regole, creino incentivi, ecc.
Per realizzare qualcosa di realistico ed efficace è,
innanzitutto, necessario fare chiarezza su quello che
significhi impegno nel sociale.
Il primo passo da fare è apparentemente molto semplice:
per tutti, il compito prioritario da assumere è la
costruzione di qualcosa. Questo concetto non è
dettato da una visione morale ottimistica, da un senso
di amore universale o da una necessità compulsiva, bensì
è quello che riassume la metodologia più adeguata per la
soluzione dei problemi. La costruzione presuppone
un obiettivo da raggiungere, il materiale che serve, i
tempi necessari, gli ostacoli da eliminare. Essere
costruttivi non significa fare qualcosa a tutti i
costi, non significa improvvisare tempi e risorse, né
essere tolleranti con chi o cosa ostacoli la
costruzione. Insomma, nel sistema che riteniamo vada
stabilito, ci potranno ancora essere organizzazioni
impegnate a costruire edifici fatiscenti che vengono
costantemente riparati tanto per dare impiego alla
manodopera, ci sarà chi si impegnerà a distruggere
un avversario o un’ideologia, chi passerà il tempo a
proporre idee irrealizzabili, ma tutto ciò non potrà più
essere considerato attività in favore della
collettività.
Più che porre principi, stabilire dettami morali di
ambigua interpretazione, sarà fondamentale stabilire con
chiarezza quando le pubbliche amministrazioni debbano
intervenire finanziariamente a sostegno di progetti che
affermano di produrre vantaggi per la collettività.
Sarà, innanzitutto, necessario che chi governa le
istituzioni demandate a sostenere i programmi di
intervento nel sociale, valuti le effettive aree di
necessità le classifichi chiaramente in base a categorie
realistiche e pragmatiche, e decida la durata e la
quantità di risorse necessarie per risolvere il
problema. Dovremo sapere, ad esempio, se la
tossicodipendenza rappresenti un problema sociale,
giudiziario o sanitario e se vada adottata la soluzione
di eliminarla o di tollerarla. Non è più possibile che
sulla pelle di individui che soffrono e che trasmettono
sofferenza, si svolgano dibattiti televisivi, si
costruiscano carriere politiche, professionali o
religiose, si spendano enormi cifre, tutto questo da
almeno vent’anni, senza che ci sia un minimo sforzo
comune e immediato per portare sollievo al malessere
collettivo. Negli ultimi anni, stante la miseria
intellettuale diffusa da una cultura attendista,
l’inerzia scientifica, il menefreghismo dei politici e
l’opportunismo moralista di molti “addetti ai lavori”,
si è accuratamente evitato di fare esperimenti seri, si
è elusa qualsiasi possibilità di lavorare su dati certi,
ci si è nascosti dietro la maschera del ‘politically
correct’ e dei funambolismi gergali per evitare di
affrontare esperimenti e fallimenti, cioè di percorrere
l’unica strada per costruire una soluzione efficace, e
tutto ciò è avvenuto, praticamente, in ogni tipo di
problematica ‘sociale’ che è emersa nella nostra
società. L’evoluzione spontanea della società, ha
risolto in tutto o parzialmente alcuni problemi e ne ha
creati degli altri, senza alcuna influenza da parte di
coloro che avrebbero dovuto orientare positivamente le
soluzioni sociali in un sistema dinamico. Così la paura
del cosiddetto AIDS ha ridotto la tossicodipendenza da
eroina, mentre il dilagare di nuovi valori guida ha
aumentato la diffusione di sostanze ‘stimolanti’, la
criminalità dei giovani si indirizza sempre più
all’interno del sistema familiare, è diminuita la
militanza ambientalista ma sempre più persone vanno a
vivere in campagna, e via discorrendo. Costruire
soluzioni sociali non significa propugnare la
trasformazione delle strutture portanti di un sistema.
Questo è compito dei meccanismi della democrazia
rappresentativa. Il compito primario è capire
l’evoluzione del sistema e correggerne gli aspetti che
generano sofferenza.
Umiltà, curiosità, responsabilità, onestà, assenza di
pregiudizi e faziosità, sono qualità essenziali per
svolgere una tale impresa e le nuove organizzazioni di
individui che intendano parteciparvi devono, in
qualunque modo, acquisirle, mantenerle costantemente e
renderle evidenti, soprattutto, attraverso la
trasparenza degli obiettivi, dei risultati e delle
risorse utilizzate.
Note:
[1]
La
situazione del no-profit in Italia. Breve storia,
fallimenti e possibili alternative.
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[2]
Tratto da una
relazione di Lea Battistoni (allora
dirigente superiore del Dipartimento degli Affari
sociali, poi direttore generale del Ministero degli
Affari sociali) datata 23 giugno 97 dal titolo "La
proposta degli Enti locali, del volontariato, del
no-profit"
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[3]
Vedi il caso Informagiovani
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[4]
Nel caso dell’Arca di Noè, è
stato denunciato lo sperpero del denaro versato dal
Comune di Roma per l’assistenza ai disabili: nell’estate
del 1998, mentre gli operatori attendevano ancora lo
stipendio di tre mesi prima, gli amministratori della
cooperativa acquistavano una barca a vela del valore di
oltre centoventi milioni e spendevano altre centinaia di
milioni per organizzare gli spettacoli e i concerti
dell’Estate Romana, dove i servizi - questi, ben
retribuiti - erano forniti da parenti e amici degli
amministratori.
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[5]
Vedi
il caso dell’Auser (Associazione per l’autogestione
dei Servizi e la solidarietà, nata nel 1989 su
iniziativa del Sindacato Pensionati della CGIL e della
stessa CGIL) - I suoi operatori volontari hanno
sostenuto l’organizzazione di biblioteche e musei del
Comune di Roma ricevendo, a titolo di rimborso spesa,
una indennità quantificata in circa 5000 lire l’ora che
ha stravolto qualsiasi concetto di "rimborso spesa" e ha
attivato una forma ai limiti del lavoro nero.
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[6] Diversi lavoratori "scomodi" hanno fatto le spese
dell’utilizzo strumentale degli articoli statutari che
sanzionano i "comportamenti
antisociali";
fra gli altri casi, nel 1998 la cooperativa
Iskra espelle il responsabile
della CGIL Funzione Pubblica di Roma
Sud e all’inizio del 1999 uguale sorte tocca al
coordinatore provinciale delle Rappresentanze di Base,
licenziato dalla cooperativa Arca
di Noè. In entrambe le
situazioni, i sindacalisti denunciavano le pessime
condizioni degli operatori, la mancanza di democrazia e
trasparenza nella gestione delle aziende e le
conseguenze negative che questo comportava nei confronti
del servizio reso agli utenti e alle famiglie.
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